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LA NOTTE DELLA TERZA P (Adele e Spank sola andata)



La cameriera arrivò e si scusò dicendo che la cucina aveva appena chiuso. Risposero che volevano soltanto bere e ordinarono un Negroni per lui e un Cuba schiacciato per lei.

Danilo sentì odore d’erba e le chiese se era il caso che si mettesse a rollare una canna sotto il tavolo.


«Questo posto non mi sembra il massimo per fumare ma ho come l’impressione che lo stiano facendo tutti.»


Adele osservò l’ambiente e rispose che secondo lei non c’erano problemi, solo magari potevano aspettare che tornasse la cameriera. Nel frattempo si fece una sigaretta e lui di rimando si accese una Camel. Il fumo gli impastò la bocca e gli pizzicò il palato. Pensò che avrebbe dovuto bere dell’acqua e soprattutto mangiare qualcosa. Al solito aveva fatto lo stronzo ed era digiuno dalla mattina.


Adele si buttò giù di schianto per grattarsi uno stinco e la fame si dileguò. Si scoprì una parte del seno, quella destra, no, la sinistra, insomma, una delle due.

«Devo avere il sangue migliore del mondo, tutte da me, - brontolò ignara del suo sguardo - stronze.»

E era bellissima. E marroncina, e piena, e morbida, e lentigginosa.

E tornò su di lui.

«Ma a te non ti pungono?»


Danilo rispose di no e girò la testa, o almeno gli parve. Cercò un posacenere per appoggiarci la sigaretta ma non c’era. Allora se la rimise in bocca e grattò la testa del cane che annusava il pavimento.


Lei si alzò per andare in bagno e passati trenta secondi la ragazza tornò con i drink. Ne approfittò per pagare, e mentre chiedeva se per caso avevano delle patatine vide sull’orologio che portava al polso che erano quasi le dieci.


Ma davvero siamo stati così tanto in macchina?


Adele ricomparve dopo nemmeno tre minuti, con la gonna storta e le mani bagnate.

A quel punto lui sollevò il bicchiere e brindò alla serata con la terza P, come l’avevano nominata un’ora prima sul bordo della Statale 398.


Quella domanda sul perché non dipingesse più aveva sfondato una diga.

Da lì si era scatenato un fiume di parole.

Adele aveva ammesso di essere entrata nella sua stanza, di aver visto i quadri, e poi di avere letto degli articoli su internet di cui lui non sospettava nemmeno l’esistenza. Sapeva della mostra, sapeva di New York, e per qualche inspiegabile ragione sapeva anche che non c’era mai andato. Ma non ne conosceva il motivo e glielo aveva chiesto.


Danilo anche stavolta non aveva detto la verità ma non se l’era nemmeno sentita di sparare cazzate.


«Penso che dipingere sia come scrivere o comporre della musica. Ci sono delle persone che riescono a farlo quando stanno male anzi, usano l’arte come una specie di valvola di sfogo. Io no. Io devo stare bene quando disegno. M’interessano volti e situazioni reali, non voglio che diventino caricature.»

«Perché caricature?»

«Se li ritraggo quando non sono tranquillo li filtro con le mie angosce, coi miei spettri, e finisce che non sono più loro ma una specie di me travestito.»

Non sapeva da dove gli fosse uscita però gli piacque, perché era proprio così. Molte cose gli risultavano impossibili da quando era successo, e quella era stata una delle prime.


Adele era rimasta in silenzio per quasi un minuto, fumando, con lo sguardo poggiato sul tettuccio della Twingo.


«E adesso non sei tranquillo?», gli aveva domandato alla fine.

«No.»

Lei aveva fatto un’altra pausa, più lunga, stavolta concentrandosi sul tubo metallico fissato all’angolo retto della rete plastificata.

«E non lo eri neanche allora dopo tutto il successo della tua mostra?»

Danilo aveva esitato prima di rispondere.

Era colpa sua e della sua frase del cazzo se erano incappati in quell’argomento.

Se non avesse tirato fuori la storia del vino Adele non avrebbe ammesso di avere problemi di alcolismo e la conversazione si sarebbe mantenuta su un livello molto più leggero.


Adesso invece lei, giustamente, intendeva giocare ad armi pari.


E lui non voleva ricominciare a raccontarle stronzate.


Si trovò a un bivio.


Poteva confessarle tutto, inabissarsi in una discussione che li avrebbe trattenuti lì sulla Statale per le prossime due forse tre ore, provando a rivangare un terreno pieno di sassi e buche su cui sarebbe inciampato ad ogni frase, ad ogni passo.


Oppure fare come lei.


Che poi non era altro che ciò che faceva lui da un anno a quella parte. Fottersene di tutto, sballarsi, affondare i ricordi in un Negroni, in una manciata d’erba, in una riga stesa sulla brida di un cesso.

Parlare senza farsi male, senza toccare tasti scordati che avrebbero solo stonato quella serata, quella notte, tutto.


Ma sì, vaffanculo, si era detto.


«Sono successe delle cose dopo la mostra, - aveva risposto con un nodo alla gola – ma non mi va di parlarne adesso. Anch’io vorrei provare a liberare il cervello, per una sera. Hai ragione.»


Adele a quel punto annuiva fissando il cruscotto.


«Quindi per stasera niente domandoni esistenziali, paranoie, e autofustigazioni.»


L’aveva detto a se stessa, senza guardarlo, scegliendo le parole.


«Esatto. Se per te va bene.»

«Una serata senza pensieri?»

«Sì. Senza pensieri e senza passato.»

«Vuol dire che stanotte ci teniamo solo la terza P?»

Questa non l’aveva capita.


«E quale sarebbe la terza P?» le domandò.

Adele gli aveva sorriso.

Il sorriso di una bimbetta furba, otto anni, che ha appena rubato un barattolo di Nutella dall’alimentari sotto casa.


«Ci viviamo il presente, – aveva pronunciato con tono sommo - facciamo quello che ci pare senza pensare ai nostri problemi del cazzo, e al fegato.»

«E ai polmoni.»

«E ai soldi.»

«E a Tommy che si sposa.»

«E a me che non mi sposerò mai.»

«Ci sto.»

«Anch’io.»


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