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LA PAURA

Aggiornamento: 17 feb 2022

Ogni volta che parto per un viaggio in solitaria so che non sarà un semplice viaggio e nemmeno un viaggio semplice. Il primo giorno, di solito, ho sempre qualche ora di spaesamento: cammino lungo strade affollate dove ognuno è con qualcuno. Incontro coppie, vecchi, giovani, famiglie felici o che ci provano, studenti con i libri sottobraccio, musicisti a piedi nudi che si passano una birra. Entro in un pub, e il mio posto non è al tavolo con gli amici ma al bancone con una pinta e il mio diario. Mi guardo intorno, e penso: ma perché non sono come tutti gli altri, che diavolo ci faccio da sola qui?


Nel frattempo però arriva uno dei tanti volti che non conosco che mi parla in una lingua che non è la mia e mi racconta storie che non conosco e che capisco a malapena. Cazzo, devi dire qualcosa - penso - devi interagire. E così mi sforzo di capire, sempre di più, sempre di più, in mezzo a tutti i miei sorry. E di lì a poco la sua voce e anche le altre intorno a me diventano più nitide, diventano parole. Il mio cervello inizia a muoversi in modo diverso dal consueto. Capisco che il barista mi sta chiedendo se voglio qualcos'altro da bere, che il violinista parla di una ballata che conosco bene, e noto che non sono sola, ma c'è uno solo come me che beve il tè.


Così chiudo il diario e comincio a parlare.

A chiedere, rispondere.

Rido.

Esco.

Scopro angoli della città che non conoscevo.

L'aria salata mi ricorda che a due passi c'è l'Oceano, domattina mi sveglieranno i gabbiani. Come si dice gabbiano in inglese?

Mi fermo, penso, prendo appunti, riparto.

Un giocoliere mi regala un palloncino. Io gli offro una sigaretta e gli domando da dove viene. Mi racconta storie di esploratori e di pirati che forse non ha mai vissuto ma che è bello lo stesso restare ad ascoltare.

Chissà cosa succederà domani, penso mentre lo saluto e continuo a camminare.

Prima che la notte scenda. proseguendo per le strade del mio viaggio, non mi chiedo già più cosa faccio da sola qui.

Lo so perfettamente.


Adesso sono seduta al Quays, con davanti una pinta di Hop House e un fungo riscaldato sopra la testa, e il mio viaggio è già finito.

Quelle prime ore in cui camminavo spaesata per le strade di Dublino mi sembrano così lontane e così stupide che mi verrebbe da dire che non ero io, la tipa che si è seduta al bancone di un pub e aveva paura.

Già. PAURA.

Paura di avere sbagliato nel partire ancora una volta senza un'amica.

Paura di sentirmi sola.

Paura che mi derubassero, scippassero, facessero del male.

Paura che mi prendessero per il culo perché il mio inglese fa schifo.

Paura di non cavarmela.

Paura di perdermi.

Paura di non riuscire a socializzare.

Paura di non divertirmi, di non ridere.

Paura di andare al ristorante e sentirmi in imbarazzo nel vedere l'altra sedia vuota.

Paura di dormire in un dormitorio e di russare o addirittura scorreggiare nella notte.

Paura di non sentire la sveglia e beccarmi gli insulti dei miei compagni di stanza.

Paura che mi picchiassero la notte successiva con gli asciugamani bagnati.

Paura di ritrovarmi sola e senza un soldo magari nell'Atlantico, magari in prigione.

E tutti questi pensieri sensati mi hanno fatto camminare per quattro ore nelle traverse di Grafton Street prima di convincermi ad entrare in quel cazzo di pub da cui poi è partito tutto perché in Irlanda si sa, parte sempre tutto da una pinta.

Quello che non si sa invece, o che quantomeno si sottovaluta, è che la paura è la più grande puttanata che riesce a impossessarci di noi e a fotterci.

Voglio dire, è capace di farti venire la paranoia di certe robe che io sono convinta nemmeno sotto ipnosi, nemmeno sotto tortura, nemmeno in Messico, con in bocca il tuo primo peyote e sulla fronte la mano di uno sciamano che strabuzza gli occhi come la tipa de L'esorcista, potrebbero mai venirti in mente.


Ora che il mio viaggio è finito posso dire di non essermi mai, mai pentita, nemmeno un istante, di essere partita da sola.

Sì, me la sono dovuta cavare.

Sì, ho dovuto chiedere aiuto a qualcuno che conoscevo da due giorni.

E sì, non ho mai saputo cosa sarebbe successo da lì a due ore.


Ma...


Mi sono persa per le vie della città e sono tornata in ostello passando per angoli che altrimenti non avrei mai scoperto.

Mi sono beccata la febbre a quaranta e Ahmed mi ha dato le sue medicine e poi è andato in farmacia a prendermene altre, e ogni due o tre ore passava a vedere come stavo.

Ho perso il cellulare e un signore me l'ha riconsegnato dicendomi che l'aveva trovato sotto un tavolo del Taffee.

Mi è venuta un'infiammazione inguinale con un bubbone che rischiava di diventare una pallina da ping pong e in farmacia - ok c'ho messo venti minuti ma chissenefrega - sono riuscita a spiegarmi e mi hanno fatto guarire.

Ho parlato per quattro ore di fila con un prof che mi ha detto che il mio inglese è perfect e mi sono sentita splendida per i tre giorni successivi.

Ho cenato da sola al ristorante e nessuno ci ha fatto caso, nemmeno io.

Ho socializzato con tutti quelli che incontravo, compresi alberi e muretti a secco.

Ho mangiato un sacco di schifezze e non sono ingrassata.

Ho cantato Bella ciao in piedi su un tavolino di legno.

Ho ballato da sola per strada.

Ho pensato seriamente che sarei morta in mezzo al deserto di Inishbofin ma non è successo.

Ho avuto paura di una pecora e non lo dirò mai a nessuno ma mi guardava come se stesse per uccidermi, giuro.

Ho fatto sesso nuda in un furgone con una temperatura cui a cose normali non resisterei nemmeno con sette pile addosso.

Mi sono tolta un calzino e l'ho appeso all'albero dei desideri dell'Inagh Valley.

Ho raccontato tutta la mia vita a un marinaio.

Ho mangiato salsiccia a colazione e bevuto whisky alle cinque del pomeriggio.

Ho riso come non mi ricordavo di essere in grado di ridere.

Ho pianto di felicità come non mi succedeva dal giorno della laurea.

In pratica è successo di tutto, tutto il contrario di quello che avevo paura potesse succedere.


Mi sembra impossibile adesso pensare che dopodomani tornerò nel mio ufficio, dove il massimo che può succedere è la fotocopiatrice che s'inceppa.

Ho capito che quel posto non faceva per me dal primo momento in cui c'ho messo piede eppure ce li metto entrambi, ogni giorno, da sette anni.

Ogni mattina, quando imbocco l'autostrada, mi viene voglia di uscire dal percorso che faccio sempre e imboccare la corsia di destra, quella che porta al mare.

Poi però mi ritrovo sempre dov'ero il giorno prima, a fare le cose che farò anche il giorno dopo, e a dirmi che un giorno le cose cambieranno.

Ma le cose non cambiano mai.

Perché c'è la paura.

È questo il suo forte.

La paura ti mette paura.

Sennò non si chiamerebbe paura.

Ma il punto è: paura di cosa?


Di quello che ti potrebbe succedere.

Che ti potrebbe, succedere.


La paura ti fa rimanere ancorato alla tua vita anche se non ti piace.

La paura ti fa pensare che uscire dalle tue certezze per tuffarti nell'ignoto è troppo pericoloso.


La paura finisce per farti accettare i problemi che hai per paura di quelli che forse non avrai mai.


Alla fine però l'ho presa, quella corsia per il mare.




Cos'è per te la paura?
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