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L'AMORE VINCE SEMPRE (Prima parte)

Aggiornamento: 7 apr 2022


In un attimo Glauco sparisce.

Alzo il mento, gli occhi volano sopra le teste e la musica non esiste più.

Quella bocca mi sorride, vedo le due rughe a semicerchio che spingono le guance verso l’esterno. Il bianco delle cornee gli incornicia le pupille grandi, due montagne rassicuranti che guardano verso di me.

Ti senti a posto fra due colossi così.

A ispezionare le spalle non ci arrivi neanche, non t’interessa proprio.

Mi ci perdo volutamente per qualche istante, lì in mezzo a quei sentieri scuri. Seguo i punti di luce che appaiono e scompaiono come tante piccole lanterne sparpagliate tra gli alberi. Poi sorrido anch’io.

Mentre distoglie lo sguardo vedo che dice qualcosa al ragazzo biondo davanti a lui, muovendo leggermente la testa nella nostra direzione. Si volta verso il tipo grassoccio che gli sta a fianco, gli appoggia una mano sulla spalla con quel tocco delicato che mi sembra di sentirlo. Poi si gira. «Sta venendo verso di noi» Lo dico tra i denti mentre Gabri mi fissa e io fisso lui ed è un record, perché stavolta riesco a perdere di credibilità senza nemmeno dargli il tempo di arrivarmi di fronte. «Che?» Ormai è tardi, Glauco ce l’hai praticamente alle spalle.

Tiro fuori un super sorriso.

Del tipo va tutto bene sto solo nascondendo centododici chili di esplosivo dietro la schiena con cui pensavo di far saltare in aria me e mezza Maremma nei prossimi dieci quindici secondi. Perché? Glauco si accorge che sono in apnea. Spank va in avanti e oltrepassa le sue scarpe da ginnastica. Lui si guarda in ritardo tra i segni dell’elastico sui polpacci, poi finalmente si volta. Ma Gabri è solo mio. «Gabri!» «Adele!» Fa uno slancio verso di me e mi accorgo che vorrebbe abbracciarmi in quel suo modo che non stringe mai più del dovuto, ma la mano forza un po’ dietro la mia schiena, forse spinta da qualche bicchiere di troppo. O forse semplicemente perché una con cui hai scopato tutti i giorni per due anni non l’abbracci come una compagna di liceo. Non ce la fai. Sento le teste dei peli della sua barba graffiarmi la guancia, il calore del suo alito avvicinarsi all’orecchio. Respira. Con le labbra mi bacia la tempia sinistra. Respira. Rimango intontita con la testa in balia della sua mano che nel frattempo mi si è fatta spazio tra i capelli. Lascio che la sua bocca sfoggi le sue piume rosse davanti alla mia e poi me la sento piombare sull’altra guancia. Respira…com’era vicina. Fa un mezzo passo all’indietro con la chiara intenzione di guardarmi tutta intera. Un fascio di brividi mi si posiziona sulle caviglie e poi prende a correre lungo le gambe insieme ai suoi occhi, risale la pancia, lo stomaco, e poi su verso il collo. Mi esplode in faccia. Lui sembra non farci caso. Come sempre. «Che ci fai qui?» Il suo sorriso s’è fatto più grande.

Vorrei rispondere ma l’arsura di tutta la birra che ho ingurgitato mi presenta il conto tutto d’un tratto. Respira cazzo. Riconosco quell’impercettibile macchiolina marrone che nuota nel suo occhio destro. Ci sta bene lì in mezzo.

È intonata con la pelle.

Che colore strabiliante ha la sua pelle. Ricorda quei chilometri di campi di terra smossa appena seminata, con la luce dorata che ne delimita i contorni e ti fa capire dove mettere i piedi.

I denti sono ancora perfetti.

Si, abbiamo fatto l’amore ogni giorno di quello stramaledettissimo anno e undici mesi. Compreso quando avevo le mestruazioni.

Corro gli occhi alla base del collo, il pomo d’Adamo prorompente, l’incavo della spalla.

È dolce quello spazio. Ti fa venire voglia di appoggiarci la testa sopra e lasciarla a riposare per tutto il tempo che non ha mai avuto.

«Io...»

Spank salta sui jeans di Gabriele in cerca di considerazione, abbaia, e io mi sveglio. Deglutisco.

Rispondo che sono qui per stare vicino alla mia Torre, come sempre.

Guardo Spank prendersi dalla mano di Gabri quelle carezze che si meriterebbero tutti i cani per il solo fatto che, in un modo o nell’altro, ti salvano sempre. Mi ero un attimo incantata.

Ma tu vatteli a dimenticare così seicentottantadue giorni di scopate ininterrotte. Il primo momentaccio è passato.

È dura avere un paio di canne e di litri di alcool a circolarti nelle vene e affrontare il primo che ti ha fatto scoppiare il cuore.

Approfitto di questo attimo di distrazione per spiargli il culo e scivolarci le mani con l’immaginazione, come facevo una volta. Bisognerebbe che il tempo si fermasse qui. Dovremmo restare così, semplicemente, sospesi in quest’aria salata, con la sabbia fresca che entra dai lati delle infradito. Glauco a guardare me, io a guardare la mano di Gabri che grattugia la schiena del mio cane. E laggiù in fondo il rumore del mare.

«Andiamo che vi offro da bere!» esclama spostando le braccia dietro di noi nel gesto di accompagnarci. Mi volto in direzione del bancone senza sapere bene dove guardo mentre sento il calore delle sue dita a contatto con la mia schiena. Saranno le due e dev’essere per questo che dei tre baristi che c’erano fino a poco fa adesso se ne vede solo uno.

Tocca aspettarlo mentre serve l’ennesimo shottino a tre inglesi ubriachi.

Gabri approfitta dell’attesa per abbassarsi di nuovo e sorprendere Spank con qualche carezza inaspettata.

Che peccato.

Non averli visti insieme.

Gabri e Spank, intendo.

Non hanno potuto condividere nemmeno un pezzettino di vita.

Hanno fatto come due che s’incrociano sulla porta di casa di un amico per rivedersi chissà quando o magari mai.

Nel momento in cui è andato uno, è arrivato l’altro.

E menomale che è arrivato.

Era passato poco più di un mese da quel dodici maggio in cui Gabri se n’era andato e ne mancavano quattro alla laurea. Mi hanno telefonato che ero a fingere di svuotare scatoloni dove ormai non era rimasto più nulla. Il trasloco l’avevo già fatto e rifatto ma non trovavo niente di meglio da fare che buttare gli occhi tutto il giorno in mezzo a quel grigio.

Non accettavo il fatto che c’ero da sola a sistemare quella casa. Che Gabri non era lì con me, non l’avremmo ridipinta, e le sue cose non ci sarebbero arrivate mai.

Laurearmi non m’interessava più.

Il problema era che non me ne fregava più un cazzo nemmeno di tutto il resto.

Non volevo uscire.

Non mi convincevano le mie amiche all’università, non mi convinceva Francesca, Glauco figuriamoci.

Venivano a trovarmi lì, in quella stanza dove me se stavo rintanata come un topo nella crepa di un muro quando fuori non si vedono che gatti. Il resto del tempo lo passavo rannicchiata sul divano, con la tv spenta e le tende chiuse, a piangermi sulle ginocchia come un moccioso in punizione. A parlare dall’altra parte era mio padre.

Mio nonno era morto.

Non mi ha detto che era morto.

Mi ha detto che si era sentito male e che dovevo correre all’ospedale.

Quando sono arrivata, dopo quasi venticinque minuti nonostante il fazzoletto bianco al finestrino, lui non c’era già più.

O meglio, c’era il suo corpo grosso e marmoreo irrigidito dietro una tenda bianca, e la bocca aperta in quell’aria di sorpresa che ti rimane sui denti nell’attimo in cui mangi l’ultimo boccone d’aria.

Ma di mio nonno non c’era più nulla.

Anche gli infarti ti colgono di sorpresa, come certe mattine di maggio, e ti lasciano imbambolata in mezzo a una stanza bianca a domandarti se è successo davvero. Ho guardato mia madre: se ne stava faccia al muro a gridargli contro, lo riempiva di testate come se fosse stato lui ad ammazzarlo.

Mio padre l’afferrava per le spalle nel tentativo di calmarla.

Mia zia era rannicchiata sul pavimento e continuava singhiozzare guardando nel vuoto.

Mio zio l’abbracciava e piangeva pure lui.

Mia nonna era fuori con le vene già infilzate da qualche tranquillante.

Ho cercato un qualche spiraglio nell’infermiera e si vede che ero proprio disperata. Sono uscita all'esterno.

Non c’era posto per me in quella stanza.

Sono andata ad appoggiarmi alla spalliera di una di quelle panchine di ferro disposte sul fianco del muraglione, che danno le spalle al cemento. Visto da lì, vicino al cartello di lavori in corso da dove si vedevano le macchie di piscio sugli angoli e i ragni nelle fessure, tutto l’ospedale sembrava puzzare di morte. Ci sono dei momenti in cui il tuo dolore non sai proprio dove buttarlo. Non se lo prende tuo padre tua madre figuriamoci, tuo fratello non c’è e se ci fosse se ne starebbe coi pugni chiusi e i denti stretti a guardare fuori dalla finestra. Non se l’è preso quell’infermiera. L’hai vista, ha preferito abbassare la testa e continuare a staccare i suoi fili. Non se lo prenderà tuo nonno, che si trovava all’ospedale per controllare una cataratta e c’è rimasto. E che nonostante i sessant’anni che vi dividevano era quello che se lo prendeva più di tutti. C’hai scritto la tua prima poesia su tuo nonno, e non avevi ancora sette anni. È stato lui che ti ha insegnato ad andare in bicicletta. Quando tua madre ti rincorreva perché l’avevi fatta incazzare andavi a nasconderti tra le costine di velluto dei suoi pantaloni e era tutto finito. E ora è lungo e disteso e ghiaccio, e più duro del letto dove gli è toccato morire senza nemmeno strizzarti l’occhio per l’ultima volta. Non se lo prende questa panchina, è inutile che ti ci aggrappi. Decine di persone ti camminano davanti con passo indaffarato, sembrano tante piccole formiche operaie che si preparano all’inverno. La maggior parte di loro nemmeno si accorge di te. Qualcuna rallenta. Ti butta gli occhi addosso come spiccioli sulla giacca infreddolita di un barbone e poi prosegue. No, non se lo prenderanno neanche loro.

Ma c’è qualcosa lì.

Ci sono due occhi cerchiati di nero con una luce gialla in mezzo, tondi e spaventati quasi quanto i tuoi. Stanno immobili tra i fili d’erba come castagne e guardano proprio verso di te.

Vedi i contorni di una testa rossiccia, due orecchie fulve con un ciuffo bianco in mezzo che fa una strana ritrosa.


È un cane.


Non sembra neanche vecchio.

Eppure se ne sta lì vicino al cassonetto quasi a volersi confondere con tutti quei sacchi. Per un attimo vorresti avvicinarti.

Ma c’è quel che resta di tuo nonno lassù da qualche parte, in una stanza come un’altra di questo ospedale indifferente, e la forza ti rimane nelle intenzioni. Ci pensa lui.

Si alza sulle zampe, e tu subito pensi che sono troppo lunghe rispetto al corpo, è un buffo cane spilungone.

Viene verso di te.

Guardi il muso lungo e quella combriccola di baffi incastonati sulla punta come antenne in cima a un tetto.

Si avvicina senza troppo timore, ha cambiato espressione. Adesso se ne sta a bocca aperta, e con quel pezzetto di lingua a spasso sotto la patata umidiccia del naso pare proprio che ti sorrida.

Nell’ultimo tratto che lo collega ai tuoi piedi vedi la coda che inizia una piccola danza nell’aria. Si siede davanti a te senza troppi convenevoli con l’aria di chi ti vede tutti i giorni da vent’anni.


Anzi si direbbe pure che t’aspettava.

Si gratta la pancia, poi riacciambella il culo sull’erba.

Alza il muso e si mette in attesa di un tuo cenno. E ti sembra la milionesima volta e il bello è che è solo la prima.

Dove andiamo adesso?

Non ti ci sei mai trovata a buttarti al collo di qualcuno che non conosci.

E invece ora molli le ginocchia e ti butti giù e affondi la testa in un ammasso di peli e pulci e piangi.

E senti che vorresti restarci per i prossimi vent’anni a piangere su quel groppone puzzolente.

Ma lui non te lo lascia che per qualche secondo.

Si tira indietro.

Ti guarda, corruga la fronte.

E poi ti spalma la sua lingua sulle gote e si porta via il sale.

Ecco.

Se lo prende lui il tuo dolore.

Se lo prende un cane.

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