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LA BRISCOLA DEL GIOVEDÌ

Aggiornamento: 28 feb 2022


Il perché avessero scelto quel giorno, non se lo ricordava. Fatto sta che da un anno a quella parte, cascasse il mondo, ogni giovedì alle 16:00 Geremia e suo nonno si incontravano per la loro consueta partita a briscola (che in realtà era un mini torneo a chi arrivava prima a tre), e guai a chi ritardava o, peggio, non si presentava: perché perdere a tavolino era una cosa da sfigati che facevano solo i pisani.

Così anche quel pomeriggio, nonostante il cielo lasciasse a intendere che di lì a poco si sarebbe scatenato il finimondo, alle quattro meno cinque Geremia si presentò all'appuntamento e trovò suo nonno già seduto all'altro lato del tavolo, che lo aspettava.

«Com'è andata a scuola?»

«Bene», rispose prendendo posto.

«Il voto della verifica di matematica di venerdì?»

Nonno si ricordava proprio tutto tuttissimo.

«7+».

«Bravo. E non hai picchiato nessuno in questi giorni, vero?»

«No nonno», mentì il ragazzino. Sapeva che se gli avesse raccontato che aveva sputato in testa a Leandro, l'avrebbe fatto arrabbiare.

«Bene. Allora dai le carte».


Anche quel giorno arrivarono sul 2-2, e alla terza la spuntò Geremia per 61 a 59.

«Ma lo fai apposta a farmi vincere ogni volta?» gli chiese osservandolo ricontare le carte per poi sbatterle al centro del tavolo.

«Stai scherzando? Mi freghi sempre per due punti. La tua è solo fortuna».

Il vento fece volare via un asso di cuori e un sei di fiori, e Geremia si affrettò a raccoglierli mentre il nonno si alzava in piedi e si rimetteva il berrettino bianco con la visiera schizzata di vernice.

«Ma dove vai?» domandò il bimbo, stupito. Di solito, dopo aver finito di giocare, rimanevano una buona mezz'ora a chiacchierare del più e del meno, mentre stavolta il nonno sembrava avere fretta di andarsene.

L'altro guardò il cielo grigio e puntò un dito verso un orizzonte non troppo lontano, dove in mezzo a riccioli di nuvole incenerite zigzagavano lampi fluorescenti.

«Sta per arrivare un temporale, devi correre a casa».

Geremia si fece serio. Il tempo passato con suo nonno era il più bello di tutta la settimana, e lui non voleva rinunciarci per nessuna ragione.

«Voglio restare qui con te! - esclamò - Non m'importa della pioggia!»

«A te no, ma a tua madre importerà e come - ribatté il nonno - cosa le racconterai quando ti vedrà rientrare bagnato dalla testa ai piedi?»

Il ragazzo ci pensò un attimo su.

«Beh... le dirò che ero insieme a te! - rispose spalancando le braccia - Me l'hai insegnato tu che se diciamo la verità non dobbiamo avere paura di niente, no?»

Il vecchio alzò di nuovo gli occhi al cielo, ma stavolta li riportò subito giù.

«Vuoi vedermi morto, Geremia? - disse sorridendo - E ora sbrigati, altrimenti il prossimo giovedì niente briscola»


Non fece nemmeno dieci passi, dopodiché ci ripensò e tornò indietro.

Il nonno era ancora lì, che guardava il cielo impensierito.

«Nonno, ma cosa succede quando sei morto?» gli chiese con un po' di paura. Geremia non aveva paura di nulla, a parte del buio e di certe domande.

«È una cosa che non ti riguarda», rispose il vecchio.

«Perché?» insistette il bambino.

«Perché quando una persona muore dicono che non la puoi più vedere e non ci puoi più parlare. Tu credi che questo sia possibile, Geremia? Pensi che un giorno non potrai più vedermi e parlare con me?»

Geremia sgranò gli occhi e fissò suo nonno. Era alto più del suo papà, più del maestro di geografia e più di tutte le persone che conosceva. Aveva le spalle grandi, le mani grandi, i piedi grandi, e quegli occhi più grandi di tutto il resto che quando si posavano su di lui lo facevano sentire al sicuro da ogni mostro, dagli scapaccioni della mamma, e da ogni cosa bruttissima del mondo. Gli aveva insegnato a pescare, fischiare, arrampicarsi sugli alberi, bussare tre volte sui cocomeri per capire se erano buoni, non piangere quando si sbucciava un ginocchio e farsi rispettare da Leandro senza bisogno di picchiarlo (e infatti adesso gli sputava e basta). Qualche volta si arrabbiava, ma mai con lui. Appendeva i salami e le salsicce al soffitto della cucina e in casa sua c'era sempre un profumino fantastico. Il sabato sera con mamma e papà andavano a trovarlo, la nonna cucinava delle lasagne buonissime o i cannelloni, o anche le patatine fritte con la bistecca, e a volte Geremia restava lì a dormire. Dopo cena, mentre guardava la tv con i gomiti appoggiati sul tavolo, il nonno si addormentava e la testa gli scivolava tra i pugni: allora lui rideva un sacco e poi andavano a letto, e Geremia si avvolgeva nelle lenzuola di peloncino e lo ascoltava russare come dieci dei suoi trattori, e quelle notti faceva sempre dei sogni bellissimi.

«No nonno, penso che tu non puoi morire» affermò avvicinandoglisi.

Ma il nonno indietreggiò.

«Ora vai a casa, però! Ci vediamo giovedì.»

Geremia s'imbronciò.

«Prima ti posso abbracciare?»

Il nonno fece segno di no con la testa.

«Non lo vedi che sono tutto sporco di terra? Devo ancora lavarmi», gli spiegò.

Il piccolo gli fece notare che era la stessa risposta che gli aveva dato la settimana prima, e che a lui non gliene fregava niente di sporcarsi di terra.

«A te forse no, ma alla mamma sì: vuoi vedermi morto due volte, allora?»

Geremia pensò che no, lui voleva continuare a vedere il nonno e a parlarci per sempre. Così si accontentò del suo enorme sorriso, la sua classica strizzatina d'occhio, e poi scappò via.


Arrivato al cancello, però, si bloccò.

Sapeva che al nonno piaceva farsi una fumatina dopo la loro partita a briscola, ma non aveva soldi per comprarsi le sigarette.

E così gliene portava una lui, che rubava ogni mercoledì sera dal pacchetto di papà.

Il cielo aveva preso a brontolare sempre più forte e un paio di goccioloni gli piombarono sulle guance, ma Geremia non ci pensò due volte e tornò indietro a passi spediti.

Estrasse la Marlboro light, l'accese col Clipper che teneva nascosto in un gavone della sua nave pirata, e la poggiò sulla lapide, vicino alla fotografia.

«Ciao nonnino, ci vediamo giovedì», disse.

Si dette un bacio sulla mano, poggiò la mano sul marmo, e poi corse a casa.





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