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FRATELLO O COLTELLO?

Aggiornamento: 17 feb 2022


Quando avevo sedici anni e qualcosa m'innamorai di una ragazza.

Io non mi ero mai innamorata di una ragazza, a dire il vero nemmeno di un ragazzo: non mi ero mai innamorata e basta.

E infatti non sapevo neanche dare un nome a quella cosa lì che mi era successa.

Sapevo solo che stavamo occupando il Liceo ed era la prima volta che mi era permesso occupare qualcosa per più di cinque minuti: anche nel cesso di casa mia mi dovevo sbrigare, perché se arrivava mio fratello bisognava lasciarlo libero.


Lui aveva fretta.


Ma qui mio fratello non c'era, e nemmeno i miei, e nemmeno i prof: c'erano quelli di quinta che parlavano al microfono di cose che non capivo proprio benissimo, però tutti applaudivano così sentivo che pure io, senza dubbio, ero d'accordo.


Anche Francesca faceva la quinta, e quando prendeva la parola lei si zittivano tutti ma proprio tutti, compresi quelli che di solito stavano in cerchio a fumarsi le canne e non ascoltavano nessuno.

Quel primo giorno di occupazione nella palestra del Liceo Scientifico Vallisneri non so cosa mi successe e perché, so solo che ero in piedi in mezzo agli altri e la guardai, e improvvisamente, inspiegabilmente, il concetto che distingueva ragazzi e ragazze, maschi e femmine, giusto e sbagliato cessò di esistere dentro di me.


Davanti al microfono non vedevo una ragazza, e nel mio cervello non spuntava più quella freccia direzionale che mi aveva da sempre indirizzato verso i maschi. Davanti al microfono c'era semplicemente lei e non esistevano più frecce né direzioni né strade da seguire.


Dopo un mesetto e mezzo io e Francesca ci mettemmo insieme.

(Sì, ho avuto una storia con una donna. A dire il vero più di una, ma di questo parleremo poi). Per oggi fatemi raccontare di Pippo.


Già, Pippo.

Era così che la chiamavo quando dovevo giustificare un'assenza alle mie amiche.

«Dov'eri oggi?»

«Col mio amico Pippo.»


Pippo, che nome del cazzo avevo scelto, poi.


Anche nel mio diario scrivevo "Pippo".

Perché la mamma di Francesca era molto calma e molto aperta e molto cazzuta, e quando sua figlia le aveva detto sono lesbica lei aveva risposto che non c'era nessun problema.

Ma mia madre non era calma né aperta, mia madre era cazzuta e basta: e se avesse scoperto che stavo con una ragazza mi avrebbe chiusa in casa fino alla fine del Liceo. Anzi no: mi avrebbe sottoposto al TSO obbligatorio. Anzi nemmeno: m'avrebbe fatto lobotomizzare.


Ci sono persone (e c'erano ancora di più negli anni '90) che considerano l'omosessualità una malattia.

E nemmeno una malattia come le altre, di quelle che ti colpiscono e tu non ci puoi fare niente: no, questa è per giunta una malattia di cui ti devi vergognare.

E dulcis in fundo, fai vergognare anche genitori, cugini, zii, prozii, nonni, bisnonni e animali domestici.


Insomma, è tutta colpa tua.


Io a sedici anni non ero omosessuale (e non lo sono manco a quaranta 😄).

Non ero omosessuale, non ero eterosessuale, non ero niente: ero solo un'adolescente che cercava di capire qualcosa in mezzo a quel tutto in cui non capiva... un'emerita. Ero solo una ragazzina che non aveva nessuna intenzione di passare chiusa in casa i tre anni successivi né tantomeno di farsi lobotomizzare.


Così mi vivevo la mia storia con Pippo spaccata a metà: esaltata come un cane quando lo portano in vacanza sulle Dolomiti, e abbacchiata come un gatto quando lo lasciano a casa a farsi sbolognare i croccantini una volta al giorno dalla vicina.


Avrei voluto salire su un tetto e urlare che Pippo mi piaceva un sacco e che per la prima volta in vita mia mi sentivo felice; ma dovevo restare zitta o al massimo parlare sottovoce, come in chiesa. E guai se mi alzavo dalla panca quando non era il momento.

T'immagini figura di merda.




Non fui io a decidere di lasciarla, e non fu lei

a decidere di lasciare me.


Successe che una sera ero al bar di paese, quello dove mi ritrovavo con i miei amici a parlare del nulla. Saranno state le nove e mezzo, quando vidi entrare mio fratello.

Pensai che era molto strano trovarlo lì, perché lui era più grande e frequentava altri posti. Così lo seguii con gli occhi mentre andava al bancone e comprava un pacchetto di Philip Morris, e mi dissi che forse aveva semplicemente finito le sigarette. Invece, dopo che ebbe pagato, venne verso di me e mi prese da parte.




«Papà sta male - mi disse con sguardo serio - devi venire subito a casa.»

«Che cos'ha?» gli domandai spaventata.

«Eh... sta male, il cuore, mi sa che dobbiamo portarlo in ospedale.»


In preda al panico saltai in groppa al mio Typhoon blu e schizzai a casa.

Corsi verso la porta, io che non corro mai, e la spalancai.

Ma entrando capii subito che c'era qualcosa che non andava.


Mia madre era in piedi, vicino al tavolo del salotto, con la faccia gonfia di pianto.

Mio padre era seduto in poltrona che digrignava i denti e non si stringeva il petto, no: stringeva una cintura. Vedendomi si alzò in piedi.

«Sappiamo tutto» annunciò mia madre con una voce tra il disgustato e il patetico.

In quell'istante entrò mio fratello.

«Tutto cosa?» balbettai io col viso in fiamme e il cuore nelle orecchie.

Mio padre si avvicinò.

Le gambe presero a tremarmi. In un attimo mi voltai e feci per scappare fuori.


Ma mio fratello chiuse la porta.


Mio fratello chiuse la porta e io puntai i miei occhi dentro i suoi.

E lui puntò i suoi occhi dentro il muro.



Qual è stata la tua prima coltellata?


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